Santena, rassegna stampa: gli articoli de La Stampa sull’operazione antiracket

Santena – 19 luglio 2014 – Oggi il quotidiano La Stampa ha dedicato una pagina all’operazione antiracket di ieri della squadra Mobile di Torino che ha portato in carcere due persone di Santena. A pagina 47 del fascicolo di cronaca di Torino sono pubblicati tre articoli, qui riproposti integralmente.

Retroscena

Dalle indagini per Musy spunta
un caso di estorsione e usura

Pressioni su Arenaways, perquisita la cella di Furchì. Quattro arresti

MASSIMO NUMA – TORINO

LaStampa_19lug2014_coverIl fallimento di Arenaways di nuovo al centro di un’inchiesta giudiziaria, condotta dal pm Roberto Furlan e dalle sezioni anti-racket della Mobile, in cui emergono contatti tra il mondo degli affari ed esponenti di rilievo della malavita organizzata. E sullo sfondo, l’omicidio dell’avvocato torinese Alberto Musy e il ruolo sostenuto dal suo presunto assassino, Francesco Furchì, attualmente sotto processo per omicidio volontario in corte d’Assise aTorino, ora indagato, assieme ad altre 22 persone. È stata perquisita la sua cella.

Il boss di Santena In carcere sono finiti Vincenzo D’Alcalà, 57 anni, autotrasportatore di Santena con saldi legami con le cosche calabresi e pluri-denunciato per gravi reati; il suo braccio destro Massimiliano Celico, 41 anni, Pinerolo; l’albanese, sempre di Santena, Gjovarin Zojza; Gaetano La Iacona, 47, Torino, a sua volta sotto il controllo di Celico. Il pasticcio di Arenaways si consuma nel 2011, quando il progetto di creare una compagnia ferroviaria degenera in un disastro finanziario; per tentare di evitare il fallimento, si fa avanti una cordata di imprenditori della Val d’Aosta, riuniti nella società Cape. Il tentativo si insabbia; dalle ceneri nasce la Sfai che raccoglie 450 mila euro e li offre come caparra al curatore, in vista dell’acquisizione definitiva di Arenaways. Ma l’operazione si blocca. Entra in scena un broker torinese, Luca D.G., che si impegna a rilevare la caparra Sfai e a cercare altri finanziatori. Francesco Furchì, come presidente dell’Associazione Magna Grecia, si riteneva, a torto o a ragione, il protagonista di questi traballanti tentativi di salvataggio. In cambio voleva un ruolo direttivo nella società e, dopo aver cercato invano di coinvolgere Alberto Musy, punta tutte le sue carte sull’intervento di Luca D. G. Quando scopre la storia dei 450 mila euro finiti, appunto, nelle disponibilità del broker, fa la voce grossa: vuole la metà di quei soldi ma il suo «socio» lo gela: «Non sono miei ma della Sfai, non ti dò niente».

«Voglio una percentuale» Furchì sembra uscire di scena. E spuntano all’orizzonte Vincenzo D’Alcalà e Massimiliano Celico. Questi due vogliono quel denaro. Fanno paura. Luca D.G. viene minacciato, aggredito, malmenato e – nonostante sia in gravissime difficoltà – riesce a pagare 40 mila euro, impegnando l’oro di famiglia. Sia D’Alcalà che Celico si guardano bene dal riferire a Furchì le loro trame. Gli inquirenti osservano che lo ritenevano poco affidabile.

False rapine e minacce Il pressing del «Reuccio di Santena» si concentra poi su un consulente finanziario legato a Luca D. G. e a Furchì. Tra lettere autografe in cui le vittime giurano fedeltà eterna a Vincenzo D’Alcalà, false rapine per impadronirsi di soldi e documenti, tentativi di sganciarsi dagli estorsori («Mia madre è morta, lasciatemi in pace». Non era vero) si consuma una commedia dai toni mafiosi: «Ti va bene che non ci sono»; «Sei solo fortunato che non sono a Torino»; «Non mi fare tornare che ci sono problemi». Il contatto avviene in diversi locali di Torino, bar del centro o noti ristoranti. In un caso, torcono un braccio a Luca D. G., tanto per essere chiari. Si scopre che quei 40mila, in realtà, avrebbero dovuto finire nelle tasche di Furchì, quale «compenso». Il suo avvocato di fiducia, Giancarlo Pittelli: «Zero collegamenti con l’omicidio, solo mere ipotesi come scrive il gip, è una vicenda estranea e irrilevante».

Silipo: «Chi sa parli» L’appello del capo della Mobile, Luigi Silipo: «Mi rivolgo ai residenti di Santena che ci hanno inviato numerose lettere anonime per denunciare le attività di D’Alcalà. È il momento di farsi avanti, di firmare le denunce. Con l’aiuto di tutti, possiamo battere il racket».

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La caccia all’arma che ha ucciso l’avvocato

“Ma dov’è finita quella pistola?
Se la trovano sono guai per tutti”

C’è un passaggio dell’ordinanza del gip Massimo Scarabello che si innesta in modo diretto nel caso Musy. È il 7 marzo 2013, Furchì è in carcere dalla fine di gennaio. Nel giorno del suo arresto Vincenzo D’Alcalà e Massimiliano Celico sono in forte agitazione. Scrive il giudice: «Si tratta di un episodio di non univoca valenza… quando D’Alcalà profferì a persona rimasta ignota le seguenti parole: «Ma hai visto che c’è tutta la roba di Furchì… nella macchina… te l’ha portata». È quindi ovvio che il riferimento alla «roba» di Furchì potrebbe essere banalmente connesso a una parte di masserizie traslocate dal magazzino di Luca D.G. di Leinì, ma in astratto non si può neppure escludere che si trattasse di ben altra «roba» di Furchì, ad esempio la pistola usata nell’omicidio Musy, anche alla luce della ulteriore e inquietante circostanza riferita da Luca D.G., cioè che D’Alcalà gli chiese denaro per pagare l’onorario del difensore dello stesso Furchì. Non fosse un mero pretesto per spillare altri denari, sarebbe davvero interessante sapere e comprendere perché D’Alcalà gli chiese denaro per interesse alla difesa di Furchì. Ad ogni modo si ripete, prescindendo da questi ancora misteriosi episodi che coinvolgono Furchì, il più essenziale e decisivo dato che emerge dagli atti: è la disponibilità di armi che certamente caratterizza l’indagato, unitamente ai suoi collegamenti con la criminalità organizzata».

Ancora: «…Qui c’era una pistola… ». Questo frammento di intercettazione, raccolta nell’ottobre 2013, riporta le parole di Vincenzo D’Alcalà. Nel novembre litiga con un fratello, negli uffici della società di famiglia, e viene di nuovo confermata la presenza dell’arma, nel frattempo sparita: «Ma se veniva… subito le perquisizioni e trovano la pistola a chic…. a lui? Metteva nei casini a tutti quanti». Il suo interlocutore lo rassicura: «No, no, no si pigliava le colpe sue, non ti preoccupare, su quello si tirava fuori».

I familiari di D’Alcalà non ne possono più. Vincenzo usava gli uffici come copertura, non faceva nulla per la ditta. E il fratello sbotta: «Non fa mai niente, pezzo di m… devi morire». Poi: «Gliel’ho sempre detto cumpare qua, cumpare là, non l’ha mica capito, io non voglio più la gente a casa mia… con me lui ha chiuso basta, qui lui non ci mette piede, se ci mette piede me ne vado. Vedi quelle cose come vanno fatte, gestitevele voi, ci mette, sì ci mette quel minchione del genero e ci mette qualcun altro qua al registratore, perché puoi… non può andare a farsi i c… suoi, non può andare a rubare, non puoi andare a spacciare la droga, perché devi essere qui a lavorare». [M. NU.]

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Il protagonista

Il “reuccio” finito anche nella colonia agricola

FEDERICO GENTA

GIUSEPPE LEGATO

Per tutti è stato, e per certi versi lo è ancora, «il reuccio di Santena». Ma per chi passeggia sotto i portici di piazza Martiri, davanti al castello del Conte Cavour, Vincenzo D’Alcalà è un imprenditore come tanti. Impegnato nel settore dei trasporti, con un’azienda a conduzione familiare alle porte di Villastellone. Che disponeva di un buon patrimonio. Che ha aiutato tanti concittadini a risollevarsi dopo l’alluvione che ha investito il paese nel 1994. E che forse, proprio per questa sua generosità, è diventato un personaggio un

po’ troppo «chiacchierato». La storia che emerge dalle indagini, come dalle sentenze, è invece un’altra. E racconta di un usuraio rinomato, sfrontato a tal punto da potersi perfino permettere di sfidare apertamente la ’ndrangheta. Perché Vincenzo D’Alcalà ha alle spalle 7 anni di colonia agricola. Il motivo? Estorsione, usura e lesioni personali. Nel 2002 era stato arrestato per aver impacchettato e spedito un proiettile a chi lo aveva denunciato. Caso chiuso?

Pare di no. D’Alcalà torna libero grazie all’indulto. Nel 2007 segue da vicino la campagna elettorale del futuro sindaco, Benedetto Nicotra. È lui, poche settimane dopo lo spoglio, a parlare di «pettegolezzi» attorno alla sua presuntaamicizia con D’Alcalà: «una persona degna, che merita rispetto». Ecco che si completa il ritratto del re di Santena. Temuto e riverito. Tra amicizie politiche e frequentazioni criminali. Un broker fuori dalle locali, ma di fatto più forte di alcune ’ndrine calabresi. Quando i carabinieri stanno indagando sulla locale di Giaveno, si imbattono in una sonora lezione subita da uno ’ndranghetista. Lo hanno picchiato, pestato, una sera di novembre. A Villastellone. Gli hanno rotto tutta l’arcata superiore dei denti. Lui chiama suo zio, il capo locale. Si pensa alla guerra, a rispondere subito. Ma quando si capisce che dall’altra parte c’è Vincenzo D’Alcalà, la reazione si affievolisce. La ’ndrangheta vuole indietro i soldi perché il suo affiliato si rifaccia i denti. Lui paga ma non chiede scusa. Ed esce a testa alta da una situazione ad altissima tensione. E’ accorto D’Alcalà. Viene tirato in ballo in un’altra storia d’usura, in cui questa volta è coinvolta anche una cantante di Sanremo. Viene assolto. Poi i fari della questura si accendono definitivamente su di lui. Arrivano i sequestri, ma il suo potere rimane integro. Fino a Ieri.

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Fonte: La Stampa – 19 luglio 2014 – pagina 47 della Cronaca di Torino