Santena 25 aprile. Il complotto contro il Duce. I parte. Puntata 220

SANTENA – 24 aprile 2020 – E’ un giallo internazionale. Più passa il tempo più diventa credibile. Di mezzo ci sono la Tomba di  Cavour, la Fiat e la Burgo, il Feldmaresciallo Kesselring, un generale morto” suicida”, Badoglio, Inglesi e Americani e un testamento fatto in fretta e furia da Giovanni Visconti Venosta.


Benito Mussolini sulla balconata della Chiesa, 16 maggio 1939

                                                                        I PARTE

Perché due grandi aziende private, nel centenario dell’Unità d’Italia, finanziarono i lavori di ristrutturazione del Castello e l’allestimento di un Museo sul Risorgimento?
Chi e cosa legava la Fiat, il presidente Vittorio Valletta e i Vicepresidenti, l’avvocato Giovanni Agnelli e il Conte Giancarlo Camerana a Santena?
Chi e cosa collegava la Burgo Cartaria di Verzuolo, il presidente onorario, senatore Luigi Burgo e l’amministratore delegato, Mansueto Ravizza, alla città di Camillo Cavour?
C’era forse qualcosa che andava oltre la passione per Cavour e per il Risorgimento?
Qualcosa che riguardava tempi più recenti.
Quelli della Liberazione, della Ricostruzione, del Boom economico, dell’Europa Unita.
La risposta è sì.

Giuseppe Musso

Santena è tra le città italiane più interessanti da studiare per comprendere il Fascismo, l’Antifascismo, la II Guerra Mondiale, la Resistenza, la Liberazione e l’oggi.
Nel suo piccolo, la città di Camillo Cavour, ha dato un grande contributo alla nascita della Repubblica Italiana e degli Stati Uniti d’Europa.
Figure esemplari di quel periodo sono un superstite e tre martiri, caduti combattendo nella guerra di Liberazione:

Giuseppe Musso (1922-1944), Carabinieri, partigiano, reduce dall’invasione dell’Unione Sovietica;

Enrico Visconti Venosta (1883-1945), Maggiore Volontario del V Corpo d’Armata Britannico, penultimo Marchese di Cavour, padrone del Castello di Santena ed erede di Camillo Cavour;

Giovanni Tosco

Giovanni Tosco (1922-1945), fante, partigiano, reduce dall’invasione dell’Unione Sovietica.

Il sopravvissuto è una persona inspiegabilmente messa da parte dalla memoria patria, come lo sono stati o lo sono ancora gli IMI (Internati Militari Italiani in Germania), i Reduci, i Partigiani, i Caduti, i Dispersi, le loro famiglie, i fascisti, gli antifascisti e gli indifferenti.

Il superstite è Giovanni Visconti Venosta (1887-1947), l’ultimo Marchese di Cavour, fratello di Enrico, figlio del Ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta e di Luisa Alfieri di Sostegno, pronipote di Camillo Benso di Cavour. Antifascista della prima ora.
Aventiniano, amico di Giovanni Amendola, fu tra i firmatari nel 1924 del Manifesto dell’Unione Nazionale delle Forze Liberali e Democratiche. 
Un atto coraggioso.
Una pericolosa dichiarazione di dissenso, improntata ai valori della rivoluzione risorgimentale contrapposta alla rivoluzione fascista.
Monarchico, fedele collaboratore e intimo amico e consigliere del principe ereditario Umberto II e di sua moglie, Maria Josè del Belgio, è stato uno dei più importanti esponenti dell’Antifascismo italiano e internazionale.

A dirlo non fu uno qualunque ma Alcide De Gasperi, cui Visconti Venosta era legato da fraterna amicizia.
De Gasperi è stato il Democratico Cristiano, Capo del Governo della Ricostruzione, uno dei protagonisti dell’edificazione dell’Europa Unita.
Alla sua scelta come Capo del Governo, in sostituzione di Ferruccio Parri, contribuirono non poco le raccomandazioni del protagonista di questa storia.
Il I Governo De Gasperi, 10 dicembre 1945-14 luglio 1946, fu l’ultimo del Regno d’Italia.
L’unico nominato dal Luogotenente del Regno, Umberto di Savoia.

Giovanni Visconti Venosta

Il II Governo De Gasperi, invece, fu il primo della Repubblica Italiana.
Giovanni Visconti Venosta, il 25 luglio 1943, dopo l’arresto di Mussolini fu al fianco del Principe ereditario e del Re nei momenti più difficili della storia unitaria d’Italia.
Per la verità lo era già prima.

E lo fu ancora dopo, nella fase di costituzione dei governi alleati con le potenze antifasciste e antinaziste.

Infine, come Consigliere della Corona, fu accanto al Re Di Maggio, Umberto II, durante il Referendum tra Monarchia e Repubblica e nella decisione dell’Esilio conseguente all’inequivocabile risultato del referendum del 1946.

Visconti Venosta era persona di ampie relazioni. Lavorò a stretto contatto con Sforza, Diaz, Ruini, Togliatti, Parri, Nenni, Nitti, Orlando, Salvatorelli, Saragat, Bonomi, Nello Rosselli, Einaudi, Mattioli, Cuccia, Valletta, Burgo, Agnelli, Peccei, Giovanni Battista Montini, segretario di Stato Vaticano, futuro Papa Paolo VI e tanti altri.

A Lui si deve la donazione alla Città di Torino del Castello, del Parco, della Tomba, della Cascina Nuova e dell’Archivio Cavour. Un atto lungimirante di conservazione e di valorizzazione di opere e azioni di cui sono state protagoniste le generazioni che ci hanno preceduti.

Dotato di una solida formazione scolastica e famigliare, nel 1906 intraprese la carriera diplomatica sulle orme del padre, Emilio Visconti Venosta.
La casa di Roma era meta di politici e intellettuali di primo piano.
Un ambiente stimolante, frequentato da laici e da cattolici modernisti, in cui si discuteva di assistenza all’emigrazione italiana nel Mondo, di politica estera, di questione meridionale, di intesa tra Stato e Chiesa.
Nel 1908 con il fratello Enrico e la Zia, Adele Alfieri di Sostegno, fu tra i primi soccorritori delle vittime dello tsunami che colpì il 28 dicembre Messina e Reggio Calabria.
Ufficiale nella Grande Guerra, nel 1917, dopo la disfatta di Caporetto, occupò una posizione di prestigio.

Fu nominato segretario del Generale Armando Diaz, Comandante Supremo dell’Esercito, con compiti di collegamento con il Governo di Vittorio Emanuele Orlando.
Nelle stanze dello Stato Maggiore strinse amicizia con Ferruccio Parri, successivo Capo del Governo dell’Italia Liberata.
Giovanni aiuterà l’amico ad essere assunto al Corriere della Sera, diretto da Luigi Albertini.
Nel Comando Supremo fece altri incontri.
Conobbe il Colonnello Ugo Cavallero, responsabile dell’Ufficio Operativo e il Generale Pietro Badoglio, Vice del Duca della Vittoria, Armando Diaz.
Il primo, nato a Casale Monferrato, fu l’artefice dei vittoriosi piani di battaglia di Vittorio Veneto.
Il secondo, di Grazzano Monferrato, se ne prese i meriti. 

Due Piemontesi, conterranei, protagonisti della scena militare e politica durante il Ventennio, che man mano divennero acerrimi rivali. Badoglio alla fine mise Cavallero agli arresti. Non contento, quando decise di scappare fece in modo di lasciarlo in balia dei Nazisti e dei Fascisti.
Il tutto in modo freddo, calcolato, telegrafato e utilitaristico.
Il momento scelto ricorda uno dei più grandi drammi della storia italiana.
La fuga del Re e del Capo del Governo dell’ 8 settembre 1943, che lasciò allo sbando milioni di giovanissimi militari e le loro famiglie.
Soldati, sottufficiali e ufficiali abbandonati al destino.
Ricercati dai Tedeschi, pronti a deportarli in Germania.
Costretti a lasciare le divise militari, a nascondersi, a elemosinare abiti civili per poter prendere la via di casa, dando luogo alla più grande operazione di travestimento del Novecento. 
Quello di Badoglio contro Cavallero fu vero accanimento.
Un’operazione di autopromozione verso gli Italiani e verso i Nazisti di inaudita doppiezza.
Un colpo basso, messo a segno quando Lui e il Re stavano fuggendo per avere rifugio sicuro nelle mani degli Anglo-Americani.

In breve. 
L’8 settembre, nella concitazione per la fuga verso Brindisi nel momento in cui, in fretta e furia, si preparavano bauli, autocarri, vetture, scorte militari e si bruciavano e nascondevano documenti, Badoglio “sbadatamente” dimenticò sulla sua scrivania della Presidenza del Consiglio, in bella vista, un memoriale scritto da Cavallero.
L’autore l’aveva stilato nell’agosto per discolparsi dalle accuse di essere filo-fascista, per le quali era incarcerato, su iniziativa di Badoglio, nel carcere di Forte Boccea di Roma.
Nel documento c’era scritto che a tramare per fare un colpo di stato contro Benito Mussolini erano implicati in prima persona anche Giovanni Visconti Venosta, l’erede di Camillo Cavour e il Senatore Luigi Burgo, proprietario della Burgo di Verzuolo.
Ironia della sorte, Badoglio era indicato come colui che doveva prendere il posto di Mussolini.     

Ma andiamo con ordine, sennò si perde il filo.
Giovanni Visconti Venosta finita la I Guerra Mondiale fu tra i fondatori dell’Opera Nazionale Combattenti. Dopo il 1922, nonostante la vittoria dei fascisti, la sua attività politica continuò fuori dalla ribalta per riemergere, ben presto, con forza, nella metà degli anni Trenta. Nel 1935 venne la svolta decisiva della sua vita.

Una via senza ritorno. Un chiaro segno che, nonostante i successi internazionali e interni del Fascismo, c’era chi, in netta minoranza, resisteva alla sua prepotente presa sulla società. Valeva per liberali, laici, democratici, anarchici, popolari, cattolici, socialisti, monarchici, repubblicani, comunisti.  Per indomiti operai, contadini, impiegati, politici, intellettuali e industriali. Il 14 luglio 1935 in casa Agnelli era successa una tragedia.

I fatti sono noti.
Edoardo Agnelli, il padre dell’Avvocato Gianni, era morto in un incidente aereo con un idrovolante a Genova.
Durante l’ammaraggio l’aeronave si ribaltò.
I due piloti si salvarono ma Agnelli, alzandosi frettolosamente in piedi, venne colpito alla nuca da un’ elica che continuava a roteare.

In Fiat, i timori che i Fascisti profittassero dell’occasione per inserire un loro uomo ai vertici dell’industria meccanica più importante d’Italia, erano forti. Nonostante fosse sgradito al Regime perché notoriamente antifascista e vicino agli Inglesi e agli Americani, il Senatore Agnelli, con una buona dose di coraggio, nominò nel CDA (Consiglio di Amministrazione) della Fiat, Giovanni Visconti Venosta, l’erede di Camillo Cavour, liberale e filo monarchico. Incarico che gli fu riconfermato nel maggio 1943, fino alla sua prematura morte nel novembre 1947. Dopo questo incarico, come si può intuire, i rapporti personali con il Regime non migliorarono. Col tempo peggiorarono.

Santena, visto il patrimonio culturale e politico custodito, accentuava le tensioni.
Essendo un luogo sensibile, i Visconti Venosta avevano accortamente trasferito il loro amministratore più bravo e capace a governare la situazione. Il Sig. Tommaso Rossi, padre di Tina e Elena, prese servizio a Santena nel 1929. Era l’anno della firma dei Patti Lateranensi, 11 febbraio.
Della venuta, il 16 giugno,  di Federzoni, Giuriati, Turati, del Ministro Rocco, del sottosegretario Giunta spediti da Benito Mussolini a portare il Ramo d’Ulivo che doveva essere messo sulla lapide di sepoltura di Camillo Cavour. Oltre ai compiti amministrativi il ruolo del sig. Rossi era eminentemente politico. Agronomo, Tenente degli Alpini, fondatore del Gruppo ANA di Santena, aveva l’intelligenza e il prestigio per ricoprire il delicato ruolo di sostituto e delegato dei padroni di casa. Abilità che dimostrò anche nel periodo in cui nel Castello si installarono i soldati della Wehrmacht.  In più doveva gestire il Ramo d’Ulivo.

I Visconti Venosta e gli Alfieri di Sostegno, infatti, non accettarono di appiccicare sulla lapide il Ramo d’Ulivo del fascista Mussolini. Per non rischiare ripercussioni, trovarono una soluzione di compromesso. Ogni volta che nella Tomba arrivava in visita un gerarca, il Ramo con la sua base di pietra serena veniva posto su una panca ai piedi del loculo. Poi spariva immediatamente.

Santena era ed è ancora un luogo fondamentale della storia Patria. Con l’inizio della Guerra, lo divenne ancor più, vista la prossimità con il confine francese, con l’Europa Occidentale e con l’industria bellica di Torino.
Così importante che anche la Fiat trasferì in incognito, nel Castello, un suo uomo di fiducia.
Era incaricato di custodire documenti molto riservati e probabilmente un apparecchio radio ricetrasmittente. Materiali che all’inizio del 1944 divennero troppo scottanti. Tommaso Rossi questa volta decise da solo.

I proprietari erano a Roma, dove operava il governo dell’Italia liberata. Dall’altra parte della frontiera che divideva in due l’Italia. Nascose tutto ciò che era pericoloso nel seminterrato. Dietro una finta parete di mattoni nella quale, prudentemente, trovò rifugio anche la preziosa Coppa di Porcellana di Sèvres donata a Camillo Cavour da Napoleone III dopo il Congresso di Parigi. Ciò avvenne pochi giorni prima che nel Castello si insediasse il Comando del LXXV Corpo d’Armata della Wehrmacht, il cui Comandante, dal 2 luglio 1944, fu il famoso Generale Gebirgsjager Hans Schlemmer.

Quello della ritirata da Torino verso la Germania finita con la resa a Vercelli solo il 3 maggio1945, ben tre giorni dopo il suicidio di Adolf Hitler. Ma perché Santena era così rilevante?

Semplice. Le mura del Castello custodivano le memorie di Camillo Cavour e dei suoi contemporanei. Cioè di coloro che diedero uno Stato unitario alla nazione italiana. E il nazionalismo era il catalizzatore ideologico con cui il Fascismo aveva conquistato il potere.  Esemplare fu l’incontro di fronte alla Tomba di Camillo Cavour, del 1939, tra Mussolini e Giovanni Visconti Venosta.

Il DUCE era al massimo dello splendore. Il 15 maggio venne a Torino per inaugurare il nuovo stabilimento della Fiat Mirafiori. Il 16 volle recarsi sulla Tomba di Cavour. Era l’occasione per ricordare il decennale dei Patti Lateranensi del 1929. Mussolini, l’uomo della provvidenza, si presentava come colui che era riuscito a chiudere la ferita rimasta aperta con la cattolicità, dopo la Presa di Porta Pia. Lui, fondatore dell’Impero dopo la conquista dell’Etiopia, era meglio del principale protagonista del processo culminato con l’Unificazione della Nazione.

Il Dittatore arrivò a Santena già di cattivo umore. La città era addobbata, dalla testa ai piedi, di Tricolori e di asparagi. Se lo poteva permettere perché allora si coltivavano 200 ettari di germogli, contro gli attuali 20. Era nervoso.
Il giorno prima un folto gruppo di operai l’aveva fischiato durante il comizio sulla pista di collaudo di Mirafiori.
I gerarchi erano furibondi.
Convinti che dietro a quei fischi ci fosse la direzione FIAT. Adesso erano isterici perché davanti alla Tomba di Cavour, a fare gli onori di casa, c’era il noto antifascista, membro del CDA della FIAT, Conte Giovanni Visconti Venosta.
Accanto a lui, a rincarare la dose c’erail Podestà di Santena, Giovanni Rey, anche lui in odore di liberale filomonarchico.
Mussolini scese dall’auto. Alzò lo sguardo, dilatò le narici. Strinse le mani sui fianchi un po’ troppo abbondanti. S’alzò in punta di piedi. Tese il braccio nel saluto romano.
Tutti risposero invocando DUCE, DUCE, DUCE, DUCE…

Il Conte rimase impassibile.
Mussolini tagliò corto.
Entrò nella Tomba, dove risplendeva il suo Ramo d’Ulivo.
Si irrigidì nel saluto romano.
Giovanni Visconti Venosta gli porse la penna.
Sull’albo dei visitatori il Duce scrisse semplicemente: Mussolini, 16 maggio XVII.
Uscito dal sepolcro salì, con passo ginnico, salì a tre a tre gradini, l’imponente scalone della Chiesa.
Dall’alto squadrò per lunghi attimi la folla che riempiva la piazza sottostante.
I Balilla cantavano attorniati di labari, gagliardetti e bandiere
Alzò lo sguardo, dilatando le narici.
Strinse le mani sui fianchi un po’ troppo gonfi.
Poggiò le mani sulla balconata. S’alzò in punta di piedi.
Increspò le labbra sotto il naso.
Tese la bocca, come si vede nel discorso di dichiarazione di guerra dal balcone di Piazza Venezia. Sotto tutti o quasi, gridavano: DUCE, DUCE, DUCE, DUCE…
Si era nel 1939, il Fascismo era al culmine del consenso.
Mussolini fece il saluto romano. Sorrise.
In attesa del suo memorabile discorso, cadde il silenzio.
Lui puntò lo sguardo all’orizzonte.
Di nuovo salutò romanamente.
Poi girò sui tacchi e se ne andò.
Dopo un anno l’Italia era in Guerra.
L’infido Badoglio era il Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate…

Gino Anchisi
da Santena, la città di Camillo Cavour, 24 aprile 2020.
75° anniversario della Liberazione.

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