Santena: l’erede di Cavour complotta contro Mussolini. II parte. Puntata 233

SANTENA – 26 luglio 2020 – Giovanni Visconti Venosta denunciato ai Tedeschi e ai fascisti da Pietro Badoglio. Se fosse vero che l’8 settembre dimenticò il Memoriale Cavallero sulla scrivania, Badoglio sarebbe una carogna.  Giallo internazionale nella terra dell’Asparago di Santena. Il 25 luglio 1943 i fascisti destituirono Mussolini. Il Re lo fece arrestare. Badoglio lo sostituì e Visconti Venosta fece testamento. (La prima parte è pubblicata su rossosantena p.220, 24 aprile 2020).

Dal maggio 1939 il racconto passa al giugno 1940, all’entrata in guerra dell’Italia fascista al fianco della Germania nazista. Dalle parole si passava ai fatti e furono subito dolori. L’infido Pietro Badoglio rimase Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate ancora per breve tempo, fino al 4 dicembre 1940. Dopo gli insuccessi con la Francia, l’Albania e la Grecia, Mussolini lo sostituì con il suo principale antagonista: il Generale Ugo Cavallero.

Cavallero rimase in carica fino all’inizio del 1943 quando, dopo le sconfitte in Russia e in Africa, gli subentrò il Generale Vittorio Ambrosio. Nel frattempo Giovanni Visconti Venosta, l’antifascista e membro del Consiglio di Amministrazione della FIAT, tramite il rapporto di fiducia con il Principe di Napoli, Umberto, e con la sua Consorte, Maria Josè del Belgio, era uomo di contiguità con la Corte. 

Curava i contatti romani: risiedeva stabilmente a Palazzo Colonna, in Piazza Santi Apostoli a due passi da Palazzo Venezia, quartier generale del Duce e dal Quirinale, la residenza del Re. Teneva solide relazioni internazionali con Inglesi e Americani. Talmente salde da mettere al sicuro, dopo i massicci bombardamenti anglo-americani su Torino, il Caval d’Brons, il monumento a Emanuele Filiberto di Piazza San Carlo, nel parco di Santena.

Gli Inglesi e gli Americani, infatti, mai avrebbero bombardato la casa di Camillo Cavour e dei suoi discendenti ed eredi. Un dettaglio che il Comando tedesco non sapeva. Lo dimostrano la costruzione di un inutile rifugio aereo nei sotterranei e la deturpante tinteggiatura oscurante antibombardamento data sulle pareti esterne del Castello e rimossa solo quattro anni fa.

Dunque il 10 giugno 1940 l’Italia, pomposamente, entrò in guerra al fianco del Fuhrer. Il giorno dopo, l’11 giugno, le cose già cominciarono a cambiare. Con delusione e costernazione i Torinesi si accorsero che non si scherzava. Gli Inglesi arrivarono sulla città e cominciarono a bombardarla.

Per l’Italia, dopo le prime smargiassate al fianco dei Tedeschi, la situazione peggiorò rapidamente. Con la Francia già sconfitta dai Tedeschi andò malissimo. La campagna di Albania e di Grecia fu un disastro.

Pietro Badoglio

Pietro Badoglio si dimise. Fu sostituito da Ugo Cavallero. Anche la campagna d’Africa finì in tragedia. L’invasione della Russia fu una catastrofe. Alla fine del 1942 ormai era chiaro a tutti che la Guerra era persa. A fine gennaio 1943 il Generale Cavallero il numero due dopo Mussolini nel comando dell’esercito, fu rimosso dalla carica di Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate,.

A questo punto il Senatore Giovanni Agnelli, padrone della FIAT, affidò a Visconti Venosta il compito di individuare alternative per un mutamento politico alla guida del Paese. Da febbraio 1942 erano in corso vari contatti tra militari, gerarchi fascisti, collaboratori del Re, industriali, servizi di spionaggio stranieri, banchieri e antifascisti per rimuovere Mussolini dal Comando delle Forze Armate e dalla guida del Governo.

La faccenda non riguardava solo l’Italia. Toccava anche i cosiddetti “nemici”, cioè quelli che l’8 settembre 1943 sarebbero diventati gli Alleati. I nodi da sciogliere erano molteplici. Destituire il Duce. Sostituirlo. Fare l’armistizio col nemico, che però doveva diventare amico, perché i Tedeschi e i Fascisti, prima amici, dopo si sarebbero trasformati in nemici. Così facendo l’Italia sarebbe diventata un campo di battaglia.

I Tedeschi avrebbero continuato la guerra sul suolo italiano anche da soli, fino alla fine. E i Fascisti sarebbero rimasti al loro fianco. Col senno di poi tutto sembra facile. Ma in quei giorni non lo era affatto. Gli Alleati e gli Antifascisti volevano sbarazzarsi del Fascismo. Ma ciò non bastava.

L’Italia, dopo aver scatenato la guerra, non poteva tirarsi da parte e restare a guardare come se nulla fosse. In più bisognava gettare le basi per rientrare nell’alleanza occidentale, in cui Camillo Cavour aveva collocato la Penisola fin dai tempi della Guerra di Crimea. Si stava ricreando, con l’aggiunta degli Americani, il contesto che nel Risorgimento aveva consentito l’Unificazione della Penisola in un solo Stato.  Inoltre, sconfitti i Tedeschi e tolti di mezzo i Fascisti, si doveva evitare di cadere sotto l’influenza dell’Unione Sovietica e del Comunismo. Insomma il quadro era più complesso di quanto si potesse immaginare.

Giovanni Visconti Venosta

Giovanni Visconti Venosta si rivelò la persona giusta al posto giusto. A Palazzo Colonna, in Piazza Santi Apostoli, a due passi da Palazzo Venezia e dal Quirinale, accanto alla sua abitazione, c’era la sede di Rappresentanza della Banca Commerciale Italiana, COMIT. L’amministratore era l’antifascista Raffaele Mattioli. I due coinquilini si incontravano spesso.

Il passaggio tra le due ali del palazzo era discretamente garantito tramite una scala di comunicazione interna alla Chiesa dei SS Apostoli. Altre volte utilizzavano la sala lettura dei giornali e riviste della Banca. Mattioli aveva rapporti con i servizi segreti degli Alleati. Finanziava i Partigiani e gli Antifascisti, fra questi La Malfa (Repubblicano), Caracciolo (Azionista), Rodano (Catto-Comunista), il poeta Umberto Saba. E’ in questo ambiente  che si sviluppò uno dei tentativi per complottare contro Mussolini.

Tra la primavera e l’8 settembre 1943 e oltre accaddero fatti ormai noti e descritti nel dettaglio. Altri, tra cui quelli che videro protagonista Visconti Venosta, sono rimasti sottotraccia. Vuoi perché Lui non cercava visibilità. 

Vuoi perché coloro che costruirono la memoria negli anni successivi non avevano evidentemente interesse a parlare dell’erede di Camillo Cavour. Del ferreo difensore delle separazione dei poteri, della Costituzione, della democrazia, dell’Indipendenza, dei valori della rivoluzione risorgimentale, nessuno si occupò. Finita la Guerra ciascuno pensò alla storia della propria parte. I Comunisti e i Socialisti stavano costruendo i loro eroi. Lo stesso facevano i Cattolici, i Liberali, i Repubblicani, gli Azionisti e pure i Fascisti. I Monarchici poi erano spaccati tra un Re, Vittorio Emanuele III, che non aveva difeso la Costituzione e il suo successore, Umberto II, che accettava l’espiazione delle colpe del padre lasciando l’Italia dopo l’esito dal Referendum favorevole alla forma repubblicana dello Stato.

L’ultimo erede di Cavour, Giovanni Visconti Venosta, uomo della politica e non del partitismo, non trovò memorialisti. Nemmeno tra coloro che sostenevano l’idea della Resistenza come secondo Risorgimento.  Nessuno colse il valore culturale e morale di una figura capace di congiungere l’unificazione dello Stato, realizzata nel Risorgimento monarchico grazie all’aiuto delle potenze europee occidentali, alla Repubblica nata dalla nuova riunificazione realizzata dall’Antifascismo e dalle potenze Alleate. E’ un vero peccato. Un’occasione mancata.

Del resto, lo stesso destino è valso per suo fratello Enrico Visconti Venosta, eroe della Liberazione dal Nazifascismo, la cui precisa scelta di campo non è stata valorizzata né dal Resistenzialismo, né dallo Stato, neppure dal Monarchismo antifascista e neanche dalle istituzioni.

Sulla lapide del Sacrario di Camerlona (RA) dove fu sepolto prima della traslazione della salma a Grosio (SO) c’è scritto solo Enrico Visconti V. Come se la completezza del cognome fosse un segno da non far apparire. Del resto a Santena, soltanto negli anni Ottanta, sulla lapide dei Caduti fu inserito il suo nome con Giuseppe Musso e Tosco Giovanni, insieme a tutti gli altri caduti della I Guerra Mondiale, della II e della Guerra Italo-Turca, di Libia, del 1911-12.

Di Giovanni Visconti Venosta si occuparono unicamente coloro che diedero attuazione alle sue volontà testamentarie e al Museo cavouriano. In particolare, quella che stabiliva di lasciare la proprietà di Santena al Municipio di Torino, per la Città di Torino. Tra questi vanno ricordati, per prima la vedova Margherita Pallavicino Mossi. Quindi gli uomini della Fiat e della Burgo, cioè di quelli che parteciparono al complotto contro Mussolini. E poi: Mario Abrate, Mario Allara, Maria Avetta, Maria Molechino, Federico Cerutti, Dante Coda, Francesco Cognasso, Gustavo Colonnetti, Maria Grazia Daprà Conti, Piero de Peverelli, Achille M. Dogliotti, i muratori: Sergio Domenino, Domenico Morra, i fratelli Gullace immigrati dalla Calabria, Rita Fabaro, Alfredo Furione, Noemi Gabrielli, il geometra Gianni Giovine, Silvio Golzio, Giuseppe Grosso, Giovan Battista Griva, Ermanno Gurgo Salice, Domenica Migliore, l’impresario Domenico Migliore, l’idraulico Mosso, i custodi Francesca Morra e il marito Cesare Nano, Luciano Jona, Tarcisio Nada, Arrigo Olivetti, Giuseppe Pacces, Ettore Passerin D’Entrèves, Giuseppe Pella, Pinella Perrone, D. Peretti Griva, Amedeo Peyron, Carlo Pischedda, Ottorino Ravasio, Paolo Ricaldone, il geometra Scannerini, Giovanni Someda, Adriano Tournon, Maria Tettamanzi, i giardinieri “Michinota” Domenica Torretta e il marito Nino Cavaglià e Aldo Lupo, Vittorio Viale, Aldo Vitale, Giovanni Vitelli. Un lungo elenco, incompleto, di persone che hanno compiuto un’impresa importante.

Pur se circoscritta nel Castello, nel Parco, nella Cascina Nuova, nell’Archivio, nella Torre Viscontea, nel Museo Cavouriano e nella Città di Santena. Importante perché ha tenuto accesa una luce su una persona che attende di ottenere i riconoscimenti che merita. Manca, infatti, lo studioso capace di porre mano alla raccolta dei documenti che raccontino la storia di cui è stato protagonista. Per ora, quindi, ci si deve accontentare di uno scribacchino che storico non è. La vita di Giovanni Visconti Venosta si interruppe all’improvviso in un ospedale di Berna. Dopo un intervento di routine al setto nasale. L’ultimo discendente dei Benso di Cavour, degli Alfieri di Sostegno, dei Visconti Venosta se ne andò in punta di piedi il 14 novembre 1947. Aveva solo sessant’anni. La morte arrivò all’improvviso, sul più bello. 

Nel momento in cui, accanto al suo amico fraterno Alcide De Gasperi, poteva finalmente occuparsi della grande politica estera italiana al tempo della Ricostruzione, dell’ingresso nella NATO, della nascita dell’Unione Europea. E pensare che il 5 giugno 1947 gli USA avevano annunciato l’avvio del Piano Marshall, il programma per la ricostruzione europea, di cui si era occupata la delegazione formata da Mattioli e Cuccia che, nel 1944, Giovanni Visconti Venosta, Sottosegretario agli Esteri del Governo di Ivanoe Bonomi, aveva inviato negli Stati Uniti d’America. Tanto più che da lì a sei mesi, l’11 maggio 1948, sarebbe stato eletto Capo dello Stato Repubblicano, l’amico liberale e federalista europeo Luigi Einaudi, di Dogliani.

Einaudi, che al referendum aveva votato per la Monarchia, che nel 1924 era insieme a Lui tra i coraggiosi firmatari del Manifesto dell’Unione Nazionale delle Forze Liberali e Democratiche. A ben pensare, l’improvvisa scomparsa di Visconti Venosta ricorda la rapida uscita di scena di Camillo Cavour pochi giorni dopo l’Unificazione. Così ha voluto il destino.

Dispiace davvero che nessuno si sia preoccupato di ricordare l’opera dell’uomo che ha contribuito all’ascesa di De Gasperi e dell’Italia sulla scena politica mondiale. Come se fosse scomodo parlare dell’erede di Camillo Cavour. Come se, verso chi incarnava la continuità tra il Risorgimento monarchico e la Repubblica nata dalla Resistenza e dalla Liberazione, ci fosse una punta, non già di pudore, ma di invidia.

Per capire qualcosa in più del misterioso complotto contro Mussolini, bisogna tornare a bomba al periodo che inizia il 25 luglio 1943. Giorni caotici e pericolosi, di sgretolamento del Regime. La mattina presto del fatidico 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo sancì il licenziamento in tronco di Benito Mussolini. Il pomeriggio alle 17,00 il Re lo fece arrestare. Al suo posto nominò Capo del Governo Pietro Badoglio.

Per le istituzioni e per gli Italiani fu un fulmine a ciel sereno, in cui molti speravano. La radio annunciò il cambio di governo, ma pochi ne intuirono la portata e le conseguenze. L’impensabile era avvenuto, con estrema semplicità. Fu la prima prova del caos che, ingigantito, si sarebbe ripetuto l’8 settembre. Persino il Generale Ugo Cavallero si sbagliò. Paradossalmente pensò che a schiaffarlo in prigione quello stesso giorno fosse stato Mussolini, del cui arresto peraltro non era informato. Chi altri poteva essere se non il Duce in persona? Pensò che avessero scoperto il suo complotto. Si preparò al peggio. I fascisti erano vendicativi.

Invece si sbagliò clamorosamente. A metterlo in galera fu il suo “amico-nemico” Badoglio. Mentre il Re faceva arrestare il Duce, Pietro Badoglio aveva altro cui pensare. Doveva far arrestare il suo vecchio amico, ormai nemico, cui aveva dichiarato una guerra personale, impietosa, condotta fino all’ultimo respiro. Fino alla morte.

Tra il Re e Badoglio non c’era dunque tutta quella sintonia che si potrebbe credere a prima vista. Se già in quelle ore si manifestava un contrasto istituzionale tra Monarca e Capo del Governo sull’arresto di Cavallero, uno dei vertici delle forze armate più in vista, la questione era ben grave. Altrettanto grave sarebbe stato se il Re non fosse stato informato di così grave passo, per di più in una disputa tra personalità rilevanti, sul quale il Monarca era già dovuto intervenire nel lontano 1928.

Per fortuna la carica di Senatore consentì al Generale di parare il primo colpo mortale e di passare l’arresto nel palazzo senatoriale. Questa condizione fece sì che Vittorio Emanuele III intervenisse direttamente per far scarcerare Cavallero. Ulteriore segno di una differenza di vedute che apre una finestra sinistra sul binomio Re e Badoglio. Il binomio che gestì, oltre all’arresto di Mussolini, le trattative segrete con gli Alleati, la firma dell’armistizio l’8 settembre e i mesi immediatamente successivi. Cavallero ritornò libero su iniziativa del Re, ma solo per pochi giorni. Ad agosto Badoglio lo fece riarrestare e stavolta richiudere nel carcere militare di Forte Boccea a Roma. Da lì uscì, praticamente morto, consegnato nelle mani dei fascisti e dei loro comandanti tedeschi. La vicenda la dice lunga sulla reale forza e sul potere nelle mani di Vittorio Emanuele III. Un Re che si mostrò debole con Mussolini e verrebbe da dire, se questa storia fosse vera come sembra, anche con Badoglio.

Un Re su cui sono state giustamente scaricate tante colpe, alle quali però contribuirono tanti altri compresi gli antifascisti: si pensi all’ascesa al potere di Mussolini e al ruolo di Badoglio l’8 settembre e nei mesi successivi.    In quei frangenti Giovanni Visconti Venosta era sul chi vive. Con il Generale Cavallero e con personalità del mondo industriale e bancario i contatti si erano spinti molto in avanti. Lo confermano le carte processuali del 1946 cui ricorse Luigi Burgo, l’industriale cartario cuneeese, nel discolparsi dalle accuse di aver collaborato con il regime fascista. Documenti che dimostrano l’intento di provocare la caduta del Duce. Nonché la messa a disposizione di una rilevante somma di denaro da parte dell’industriale.

In quei giorni un errore, una delazione, un tranello, una vendetta e si rischiava la reputazione e la vita. L’Italia era ancora in guerra, alleata con la Germania. In segreto si preparava il cambio di schieramento. Visconti Venosta, visti i rapporti con gli Alleati e con il principe ereditario, sapeva delle trattative. I Fascisti, lacerati al loro interno, erano sempre più furibondi. I Tedeschi cercavano Mussolini per rimetterlo al potere. Il secondo arresto di Ugo Cavallero, stavolta con l’accusa di aver tramato con i Fascisti, suonò come una sirena d’allarme. Giovanni Visconti Venosta lasciò rapidamente Roma. Le incertezze del Governo Badoglio, dopo l’euforia per l’arresto di Mussolini, alimentavano un clima da resa dei conti generalizzato. La situazione era insostenibile. C’era urgente bisogno di una leadership forte per pacificare all’interno il Paese.

I Tedeschi, sconfitti in Africa, in Russia e nel Mediterraneo –tutta la Sicilia era stata conquistata dagli Anglo-Americani nella prima metà d’agosto – si stavano preparando a occupare l’Italia e a praticare la strategia del terrore verso la popolazione civile. Strategia del terrore che dopo l’8 settembre fu applicata su larga scala, in tutta la Penisola, nella lotta contro la Resistenza e contro i renitenti alla leva militare. Se i discorsi fatti con il Generale Cavallero fossero venuti all’orecchio dei Tedeschi e dei Fascisti sarebbe stata la fine. E infatti le prove scritte finirono proprio nelle mani dei Germanici. Per mano di un “amico insospettabile”.

Successe che Badoglio l’8 settembre, mentre stava per fuggire con il Re a Brindisi, lasciò sulla scrivania di Capo del Governo nientemeno che il Memoriale Cavallero. Memoriale in cui il Generale descriveva per filo e per segno il complotto che stava ordendo contro il Duce e chi erano i suoi complici. Tra questi uno dei principali, assieme all’industriale Burgo, era nientemeno che Giovanni Visconti Venosta, l’erede di Camillo Cavour, il proprietario della Tomba e del Castello di Santena, l’amico del Principe ereditario, l’uomo delle FIAT.

Ma come mai il Memoriale era nelle mani di Badoglio? Semplice. Ugo Cavallero, dal carcere militare, interrogato dal generale Giacomo Carboni, per discolparsi dall’accusa di tramare con i fascisti, aveva scritto un dettagliato documento in cui descriveva cosa aveva fatto per liberare l’Italia da Mussolini. Nel memoriale era scritto che il nuovo capo del governo, per Lui e i suoi complici, doveva essere Pietro Badoglio. La “dimenticanza” del nuovo Capo del Governo fu una pugnalata alla schiena non solo a Cavallero, ma alle persone indicate nel documento. Con quel gesto, Badoglio dimostrò di volersi disfare anche di loro.

Terribile il fatto che mettesse nelle mani dei Tedeschi le prove della colpevolezza di Giovanni Venosta. Perché se avesse voluto solo colpire Cavallero avrebbe potuto cancellare o strappare le parti che riportavano gli altri nomi. Invece consegnò tutti nelle mani del nemico. Se non fu un’altra manina a mettere sulla scrivania il Memoriale, se davvero la vicenda è andata così, c’è di che rabbrividire. Probabilmente Vittorio Emanuele III fu tenuto appositamente all’oscuro della manovra. Ciò indica che la rete di protezione e di comando che lo attorniava non era adeguata o perlomeno aveva dei buchi vistosi. Lo conferma il fatto che, se il Re avesse saputo della presenza di Giovanni Visconti Venosta, sarebbe sicuramente intervenuto per impedire una simile nefandezza.

Vittorio Emanuele III

Una domanda sorge spontanea. Viene da chiedersi quanto effettivamente contasse ancora questo Re inviso a tutti, su cui sono state riversate colpe sue e non sue. E quali fossero i veri amici e i veri nemici, interni ed esterni. Una figura, quella di Vittorio Emanuele III che, in alcune vicende, sembra sia stata utilizzata per lavare e coprire errori e nefandezze altrui.  Per fortuna Visconti Venosta cambiò aria. Non si sa se decise da solo o se gli fu suggerito da qualcuno. Il contesto era sempre più complesso. Sapeva delle trattative di armistizio con gli Anglo-Americani ormai in stato avanzato di attuazione. Altre strade del resto non c’erano.

La Germania aveva perso la guerra. Da una parte c’erano i Russi dall’altra gli Americani, i Francesi, gli Inglesi. Gli Italiani dovevano stare dalla parte non sovietica.  Il 3 settembre fu firmato l’armistizio di Cassibile. L’8 settembre ci fu la resa dei conti. Ormai bisognava dichiarare da che parte si stava. La fuga del Re e di Badoglio a Brindisi scatenò, insieme al caos, le furie dei Tedeschi e dei Fascisti. A Roma alcuni reparti militari insieme ai primi Partigiani presero le armi per difendere la città. Tra loro c’era pure un concittadino di Giovanni Visconti Venosta, di San Martino Alfieri, il tenente dei Granatieri di Sardegna, Elidio Valle.

Uno dei primi caduti partigiani (San Martino Alfieri 28 gennaio 1921 +Acqui Terme 25 gennaio 1944), anch’egli troppo dimenticato dalla memorialistica. Catturato a seguito di delazione e fucilato dai Tedeschi nei giorni in cui si stanno organizzando le prime formazioni partigiane. Elidio è uno dei combattenti che ha affrontato nelle strade di Roma i Tedeschi il 9 e il 10 settembre. Poi i Tedeschi presero il soppravvento. L’Italia era divisa in due.

Giovanni Visconti Venosta si trovava in quella sbagliata, in cui comandavano i Tedeschi. Scappò e si rifugiò in campagna, nella casa di famiglia. In Piemonte, nel Monferrato, al confine col Roero, di fronte alle Langhe. Precisamente a San Martino Alfieri, tra Asti e Alba, sulla valle del Tanaro. Non lontano da Santena e a un’ora da Torino. Era salito da Roma in auto, con il cuoco e l’autista. L’Italia era sconvolta.

Dopo il 9 settembre tutte le famiglie erano coinvolte dallo sbandamento di milioni di giovani soldati. Visconti Venosta si trovava in territorio nemico, con addosso una testimonianza che lo indicava come compartecipe di un complotto contro Mussolini. Il 10 fu un giorno tormentato. Doveva pensare al futuro di sua moglie e delle persone che erano con lui.

L’11 settembre 1943 la minaccia di un arresto si fece sempre più probabile. I Tedeschi erano spietati e vendicativi. Giovanni Visconti Venosta decise di prepararsi al peggio. Fece testamento di proprio pugno. Testimoni furono i fedelissimi Caprione Vincenzo, il cuoco, e De Peverelli Piero, Pierino, l’autista.

“Oggi 11 settembre 1943, sano di mente e di corpo scrivo le mie ultime volontà: Credo in Dio – Desidero riposare a Grosio presso mio Padre e mia Madre – Nomino erede universale di tutti i miei beni presenti e futuri la mia diletta consorte Margherita Pallavicino Mossi in Visconti Venosta. Ogni testamento od altro scritto con data anteriore alla presente è da considerarsi annullato.”.
Firmato Giovanni Visconti di Sostegno.

(Prosegue)

Gino Anchisi da Santena, la città di Camillo Cavour, 26 luglio 2020.