Una pausa per lo spirito – proposte di riflessione per i giorni dal 3 al 9 marzo 2013

Santena – 3 marzo 2013 – DI seguito, alcune proposte di riflessione, per i giorni dal 3 al 9 marzo 2013, tratte dalla liturgia del giorno, con commento alle letture domenicali.

Domenica 3 marzo 2013

Ho osservato la miseria del mio popolo

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIn quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

Es 3,1-8.13-15

Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

1 Cor 10,1-6.10-12

Se non vi convertite, perirete tutti

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

Lc 13,1-9

Io sarò con te

Continua il nostro cammino quaresimale che ci condurrà a Gerusalemme per la Pasqua. Siamo alla terza tappa, dopo la tentazione nel deserto e la visione del Tabor. La liturgia di questa domenica si apre con la narrazione dell’esperienza religiosa di Mosè su un altro monte, l’Oreb. Mosè, narra il libro dell’Esodo, stava pascolando il gregge del suocero e si spinse sino all’Oreb. Era fuggito dall’Egitto perché la sua vita era in pericolo (aveva ucciso un egiziano) e si era sistemato con la tribù di Ietro, sacerdote di Madian. Lì conduceva una vita normale, come quella di tanti. Forse, l’unica differenza era quella di tenersi a distanza dagli egiziani. Un giorno, arrivato alle pendici del monte Oreb, “l’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto”: un fuoco che bruciava ma non consumava. Così è della Parola di Dio: brucia la nostra vita ma non la distrugge, ci inquieta ma non ci annienta. Questo fuoco così particolare si fa parola viva, toccante: chiama Mosè per nome. In quel deserto sconfinato, mentre si trovava solo con le sue greggi, quell’ebreo egiziano non era né solo né abbandonato: “Mosè, Mosè!”, si sentì chiamare. Alla sua risposta la voce continuò: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è terra santa!”. Mosè non solo si tolse i calzari, si velò anche il viso, “perché aveva paura di guardare verso Dio”. Non si può stare impunemente alla presenza di Dio. Ancora oggi, in Oriente, quando si entra nei luoghi santi (penso alle moschee o alla zona attorno all’altare nelle chiese cristiane copte dell’Egitto), bisogna togliersi le scarpe. È il senso della nostra pochezza e della nostra povertà. Prostriamoci davanti a chi è tanto più grande di noi, infinitamente più grande, nella forza e soprattutto nell’amore! Le parole che Dio rivolse a Mosè bruciavano di un amore sdegnato per l’oppressione di Israele: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo”. Il Dio che Mosè si trova davanti non era lontano e impassibile, ma un roveto d’amore, un fuoco che brucia per liberare il suo popolo. Davanti a questa fiamma dobbiamo davvero coprire il nostro volto, spesso freddo e distante. La vicinanza di questo fuoco ci trasforma e ci rende testimoni dell’amore. Mosè aveva paura di tornare in Egitto e soprattutto di presentarsi al suo popolo. Con quale autorità avrebbe chiesto di essere ascoltato? Per questo chiede al Signore: “Chi sono io per parlare al popolo d’Israele?”. È una domanda saggia, impregnata della consapevolezza della propria fragilità e inadeguatezza. Infatti la forza del discepolo non si fonda sulle sue capacità, ma sulla vicinanza del Signore: “lo sono (sarò) con te”. Mosè non dovrà andare a liberare i suoi fratelli con parole dettate dal suo cuore vacillante, ma con quelle di Dio: “Io-Sono mi ha mandato a voi”. La definizione che Dio dà di se stesso, “Io sono colui che sono”, non è costretta, è storica: il nome di Dio (ossia Dio stesso) accompagnerà sempre Mosè e il suo popolo. Su quel monte, l’Oreb, si manifesta la scelta di Dio per Israele e per gli uomini: “Io sarò con te, dice il Signore a ogni uomo, a ogni donna; io sarò per te come il fuoco che riscalda e illumina, come la nube che guidava Israele nel deserto; io sarò la tua libertà e il tuo futuro, come diedi a Israele la terra promessa. Non solo; io porrò la mia tenda in mezzo a voi, mi stabilirò per sempre con voi; sarò l’Emanuele, il Dio con noi”. La definizione che Dio ha dato di se stesso sull’Oreb raggiunge il suo culmine in Gesù: Gesù è il definitivo roveto ardente (“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso”, Lc 12,49). Ed è lui che ha detto ai discepoli: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). La pericope evangelica di questa terza domenica di Quaresima ci presenta Gesù come un vignaiolo che intercede presso il padrone per salvare una pianta di fico. Per vari anni quest’albero non ha prodotto frutto e il padrone, sdegnato, vuole tagliarlo. Il vignaiolo insiste perché il padrone aspetti ancora un po’ di tempo. La supplica raggiunge il padrone e lo convince. Con questa parabola Gesù non fa che descrivere la vicenda della nostra vita, spesso senza frutto. Essa però è salvata dalla misericordia di Gesù che si è fatto compagno, amico e difensore di ognuno di noi. Ma chiede di lasciarsi toccare il cuore. La Quaresima è uno di quei tempi particolari, opportuni, che ci sono donati per la nostra conversione. Dio non è intento a mandarci disgrazie perché ci ravvediamo (è una concezione distorta di Dio, anche se purtroppo è molto diffusa). Gli esempi riportati da Gesù sono chiarissimi in questo senso. Anche i salmi lo ripetono: “Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102/103,8). Tuttavia il richiamo all’urgenza della conversione è serio; non tanto per la vendetta di Dio, quanto per evitare di fare del male: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (l Cor 10,12).

Comunità di Sant’Egidio

Alla tentazione della durezza oppone la fatica dell’amore

La conversione è il tema centrale della terza domenica di Quaresima. Evidente nel testo evangelico (“Se non vi convertire, perirete”: Lc 13,3.5), l’invito alla conversione è presente anche nel testo paolino sotto forma di ammonizione a non cadere nell’idolatria e a immettersi nella lotta contro le tentazioni; nella prima lettura la conversione appare come svolta decisiva nella vita di Mosè, per cui egli riceve dal Signore ciò che prima si era autoaffidato, cioè il compito di liberare i figli d’Israele dall’Egitto.  I tre testi trovano un filo rosso anche nella presentazione del rapporto tra Parola di Dio ed eventi. Gli eventi della vita quotidiana, i gesti ripetitivi del lavoro di ogni giorno, diventano occasione di ascolto di una Parola di Dio per Mosè (Es 3); gli eventi avvenuti nel passato della storia di salvezza e testimoniati nella Scrittura diventano eloquenti per i cristiani di Corinto e veicolano per loro una Parola di Dio (1Cor 10); gli eventi della storia contemporanea, in particolare alcuni fatti di cronaca (un incidente e un fatto politico-militare), sono colti da Gesù come appello alla conversione (Lc 13). La quotidianità (I lettura), la storia (vangelo) e la Scrittura (II lettura) sono tre luoghi attraverso cui Dio parla all’uomo. Ascolto (I lettura), memoria (II lettura) e discernimento (vangelo) sono atteggiamenti essenziali per cogliere la Parola di Dio negli eventi storici. Eventi tragici dell’attualità vengono assunti nella fede da Gesù come invito alla conversione e strappati al rischio di divenire occasione per giudicare gli altri: questo viene ottenuto inserendo la storia quotidiana nella storia di salvezza, anzi cogliendola come storia guidata da Dio, storia che si apre su una dimensione escatologica: la morte minacciata (“perirete allo stesso modo”) non è ovviamente riferita alla morte fisica, ma alla prospettiva escatologica (in connessione con la pericope precedente: Lc 12,54-59).  Certamente vi è una dimensione spirituale di morte che riguarda l’insensibilità agli eventi, l’indifferenza alla storia, il rifugiarsi nella pigrizia dell’abitudine, il non lasciarsi scuotere e ferire dalla storia, il restringere i propri orizzonti di interesse solo a ciò che ci tocca direttamente e da vicino. Anche la parabola del fico (vv. 6-9) ricorda che non all’uomo spetta giudicare sulla fecondità o sterilità dell’altro, e ancor meno spetta all’uomo estirpare o escludere chi si ritiene che non dia frutti. L’infecondità dell’albero diviene per il vignaiolo invito a lavorare ancora e ancor di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla tentazione della durezza e dell’esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata dell’amore: l’amore come lavoro, come impegno, come “fare tutto il possibile per”. E comunque il vignaiolo si proibisce di dare un giudizio inappellabile di sterilità sul fico e lascia al padrone della vigna questa difficile decisione: “Se no, tu lo taglierai” (v. 9). Tu, non io. Fuor di metafora: Cristo narra l’amore e la pazienza di Dio, radicalmente e sempre, anche di fronte alle situazioni più “disperate”, e lascia a Dio il giudizio. La tentazione di giudicare pecca di impazienza, di mancanza di attesa dei tempi degli altri. La pazienza, invece, è fiducia accordata, è arte di vivere e sostenere l’incompiutezza e l’inadeguatezza che vediamo negli altri, nella storia e che dobbiamo saper vedere in noi stessi. I nostri tempi non sono quelli degli altri! Nel vignaiolo che dice al padrone: “Lascialo ancora quest’anno” (v. 8) vi è anche la figura dell’intercessore. E intercedere non significa semplicemente supplicare Dio per qualcun altro, ma compromettersi, con una grande assunzione di responsabilità, facendo tutto il possibile in prima persona per venire incontro alla situazione della persona per cui si prega. L’intercessione fa l’unità tra impegno storico e responsabilità da un lato, e fede e preghiera dall’altro. E così non solo chiede l’intervento di Dio nella storia, ma già lo annuncia impegnando l’intercessore nell’azione.

Comunità di Bose

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Lunedì 4 marzo 2013

Nessun profeta è bene accetto nella sua patria

In quel tempo, Gesù [cominciò a dire nella sinagoga a Nàzaret]: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidóne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Elisèo, ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costrita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Lc 4,24-30

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Martedì 5 marzo 2013

Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.  Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quel che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Mt 18,21-35

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Mercoledì 6 marzo 2013

Non sono venuto ad abolire la Legge, ma a darne pieno compimento

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli».

Mt 5,17-19

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Giovedì 7 marzo 2013

Chi non raccoglie con me, disperde

In quel tempo, Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio. Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde».

Lc 11,14-23

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Venerdì 8 marzo 2013

Amerai il Signore tuo Dio e il tuo prossimo

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocàusti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Mc 12,28.34

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Sabato 9 marzo 2013

Chiunque si esalta sarà umiliato

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Lc 18,9-14

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