Crolla ponte, santenese tra i 9 morti. Puntata 245

SANTENA – 28 novembre 2020 – Analogie e differenze tra il crollo (1939) del ponte sul Po a Moncalieri e il crollo sul Polcevera (2018) del Ponte Morandi di Genova. A Moncalieri le autorità, la magistratura, i tecnici e la stampa minimizzano la tragedia. In ballo c’è il prestigio dell’Italia fascista. Nessun colpevole. Tutti assolti. Diverse la reazione dell’opinione pubblica, dei famigliari e dello Stato.  

Il ponte Morandi crollato

Lavorava alla RIV di Torino, in via Nizza. Quel giorno di fine maggio era in ritardo. Santena era in piena stagione di asparagi. La sua numerosa famiglia ne possedeva un campo. Nella tracolla portava un mazzo di germogli appena raccolti. Stavolta erano per il suo capo. Aveva chiesto alla mamma di prepararglielo. La scelta e l’immazzamento purtroppo avevano richiesto più tempo del necessario. Pazienza. Il mazzo era proprio bello. Anche pedalando più velocemente non sarebbe riuscito a bollare il cartellino entro le 14. Era giovane e forte, spinse più che poteva. Avesse rallentato era meglio. Arrivò all’imbocco del ponte sul Po di Moncalieri che erano le 14,09. Da notare, era collocato dove adesso c’è quello accanto alla ferrovia. Piazza Bengasi e via Nizza non erano lontane. Il suo destino stava per compiersi. Il cantoniere deviava i camion, le auto e i carri su corso Moncalieri. A lui e ai pedoni fece segno di passare. Pigiò forte sui pedali. Sulla destra notò un gruppo di curiosi fermi a guardare giù nel fiume. Avvertì uno scossone. Con la coda dell’occhio vide che quelle persone stavano cadendo in basso. Sentì un boato. Davanti a lui la strada era intatta. Ma la ruota posteriore si bloccò, abbassandosi. Per un attimo pensò di riuscire ad andare avanti. Poi il peso lo trascinò indietro verso il basso. Stava precipitando. Le macerie del ponte lo uccisero. Forse lo tramortirono e le acque lo affogarono. “E’ stato veramente sfortunato”. “Un attimo e l’avrebbe fatta”. Così raccontarono i testimoni oculari alla famiglia. Il ricordo del ritardo per quel mazzo d’asparagi lacerò la memoria di tutta la famiglia per anni. Alla RIV non sarebbe mai arrivato. Sparì nelle acque. Lo ritrovarono, secondo un rapporto dei carabinieri, il 6 giugno. Il corpo venne a galla all’altezza della Gran Madre di Dio. Si era fermato davanti alle griglie all’imbocco della derivazione del Canale Michelotti, sulla destra appena dopo il ponte di Napoleone. Lo riconobbe il fratello Domenico Tosco (Pulera), nato nel 1917. In memoria del fratello scomparso Domenico diede il nome Luigi a suo figlio, nato nel 1947. La foto dello zio denota una bella rassomiglianza con il nipote.

Luigi Tosco, figlio di Giuseppe e Lucia Gambino, nato a Santena il 17 marzo 1922, morì il 31 maggio 1939, XVII dell’era fascista, alle ore 14,10 nel crollo del ponte di Moncalieri. Aveva 17 anni. Nonostante la giovane età lavorava in una delle fabbriche più importanti d’Italia e d’Europa. La Riv fabbricava cuscinetti a sfera per la Fiat, per l’esercito e pure per i cacciabombardieri tedeschi “Stuka”. Il posto di lavoro era quanto di meglio si potesse trovare. Gli operai erano dei tecnici specializzati nella meccanica di precisione. Un’elite consapevole della propria professionalità. Il salario era buono, l’ambiente stimolante. Nel 1939 il Duce era al culmine della sua celebrità. Il 22 maggio a Berlino fu firmato il Patto d’Acciaio tra Italia e Germania. L’Italia fascista a grandi passi si stava preparando a perdere la Seconda Guerra Mondiale. Sette giorni prima, il 15, Mussolini aveva inaugurato lo stabilimento Fiat di Mirafiori. Il 16 maggio era venuto a Santena sulla tomba di Camillo Cavour per ricordare il decennale dei Patti del Laterano. Luigi, giovane avanguardista, era tra la folla inneggiante, schierata sotto la balconata della Chiesa parrocchiale, sulla Piazza Roma, oggi Martiri della Libertà. L’Italia fascista doveva funzionare come un orologio. L’Agenzia governativa di stampa Stefani nelle sue veline diceva che bisognava dare solo notizie edificanti. Il regime fascista voleva la realtà descritta a suo modo. L’interesse dello Stato prevaleva sui diritti dell’individuo. Il crollo del ponte di Moncalieri, su cui pochi giorni prima era passato per ben due volte il Duce, scompaginava l’immagine d’inossidabile efficientismo dell’Italia fascistizzata e del suo condottiero.

Per questo i giornali “La Stampa” “Stampa Sera” e “la Gazzetta del Popolo” parlarono poco e frettolosamente dell’accaduto. Compreso dell’assurdo comportamento dei tecnici del Genio Civile e dell’Azienda Autonoma Statale della Strada (l’ANAS di allora), proprietaria del ponte. Come nel caso di Genova ciò che accadde ha dell’incredibile. Già settantanove anni prima del crollo del Ponte Morandi il 14 agosto 2018, quello di Moncalieri crollò per colpa dell’incuria, dell’imperizia e dell’incapacità di prendere decisioni. Il tempo per evitare la tragedia c’era. Da un anno si vedevano segni di cedimento. Il 31 maggio alle 6.10 un cantoniere si accorse che all’altezza della terza arcata, quella verso Trofarello c’erano un vistoso avvallamento e una crepa a forma di mezzaluna. Fu chiuso il transito di carri e autoveicoli, mentre i pedoni e i ciclisti potevano passare. Alle 9,30 i responsabili del Genio Civile, della Azienda delle Strade e dell’Ufficio Tecnico del Comune fecero un consulto. Decisero di fare delle misurazioni. Avvenne una cosa strana. Siccome il piano stradale aveva ceduto sul pilone a valle del ponte, il transito di autoveicoli sulla corsia che andava in direzione di Trofarello rimase inspiegabilmente aperto. Passarono quasi sette ore. Alle 13,00 fu constatato che la fenditura e l’avvallamento erano accresciuti. Gli ingegneri però continuarono a fare misurazioni e verifiche. Alle 14,10 -erano passate esattamente otto ore dal primo allarme- mentre sul vicino ponte ferroviario transitava un treno il viadotto crollò. Tutti sapevano che da tempo, più di un anno, dava segni di cedimento. Coloro che dovevano sapere sapevano che i suoi pilastri non avevano solidi appoggi sul fondale scavato per prelevare la ghiaia. Ghiaia utilizzata per fare i lavori della nuova via Roma di Torino, il cui ultimo tratto da piazza San Carlo a piazza Carlo Felice era stato inaugurato giusto nell’ottobre 1938. Nove persone morirono, quindici furono ferite, senza contare i contusi che, come era costume di allora, si medicarono per conto loro. Allora come adesso nessuno osò adottare l’unica decisione sensata. Nessuno si prese la responsabilità di decidere quello che andava deciso. Perché non lo fecero? Semplice. Chiudere il ponte era “impossibile”. Da lì passava tutto il traffico, da e per l’astigiano, l’albese, il genovese e il piacentino. La sua funzione era nevralgica. Una volta chiuso andava rifatto. E per rifarlo ci voleva troppo tempo.

Naturalmente la Procura di Torino non poté fare a meno di aprire immediatamente un’inchiesta. Furono nominati due eminenti periti per indagare sulle cause del sinistro. L’accusa era: delitto colposo di danno. Caduta di un ponte. Il processo fu rapido. I registri della Procura riportano che la requisitoria del Pubblico Ministero del 19 gennaio 1940 chiedeva il “non doversi procedere perché il fatto non costituisce reato”. La sentenza del Giudice Istruttore, il 29 gennaio 1940, si uniformò alla requisitoria. Furono tutti assolti. Poiché dall’archivio sono scomparsi i due testi, non si saprà mai quali siano state le motivazioni. La colpa per la morte di 9 persone e il ferimento di altre 15  è dunque da ritenersi a carico del ponte stesso.

Luigi è in alto, a sinistra, con la mamma e il papà

A Moncalieri il funerale delle prime due vittime ritrovate fu solenne. Pagò il Comune, mentre la Chiesa per i servizi funerari non chiese nulla. C’erano corone e autorità nazionali e provinciali. Tutto fu gestito direttamente del Partito fascista. Nella cronaca de “La Stampa” non appare il nome del Podestà Guglielmo Boccardo, ma solo quello del Commissario Prefettizio di Moncalieri, Giovanni Scrivano. Lo stesso che ad agosto del ’39, per applicare le Leggi razziali, fu inviato a Santena, a sostituire il Podestà Giovanni Rey, dimissionario per la questione di via Emanuele Sacerdote –non più degno in quanto ebreo- tramutata in via Guglielmo Marconi.

Luigi Tosco fu sepolto a Santena. Così riporta “Stampa sera” del 19 giugno 1939. Come tutta la faccenda, il funerale fu gestito dal partito fascista. La salma dell’avanguardista venne trasportata a spese del Comune di Moncalieri prima nella Casa del Littorio, dove ora c’è piazza Plombières les Bains, tra corone di fiori e ceri ardenti.  E, quindi, trasportato a spalle dagli Avanguardisti, in Chiesa. All’uscita della messa il vice-federale fece l’appello fascista. Tutto finì lì. No! Ci fu uno strascico. C’era il conto da pagare. Assurdo che lo pagasse la famiglia della vittima innocente. Il Parroco di Santena don Pietro Amateis a febbraio 1940 fece un esposto al Prefetto di Torino. Chiedeva 1500 lire per le spese del funerale. Da Moncalieri non volevano pagare. Il Prefetto però intimò di farlo. Allora il Podestà di Moncalieri scrisse al Segretario del Fascio di Combattimento di Santena, chiedendogli di intervenire per ottenere almeno uno sconto. Riduzione concessa dal Parroco che chiese 1.000 lire.

Gino Anchisi
da Santena, la città di Camillo Cavour, 28 novembre 2020

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Fonti:
–Luigi Tosco, nipote di Luigi Tosco.
–Archivio storico de “La Stampa”. Bruno Gambarotta “Ero io su quel ponte, XVII Era Fascista” Manni Editori, 2019.